La Corte giustizia europea da tempo afferma che il rapporto tra diritto comunitario e gli ordinamenti dei singoli Stati membro dà vita ad una integrazione con primazia del diritto comunitario su quello interno; pertanto in caso di contrasto tra norma interna e norma comunitaria i giudici degli Stati membro dovranno disapplicare la prima e considerare efficace la seconda, in virtù del suo più alto grado. La giurisprudenza costituzionale italiana ha nel tempo espresso posizioni diverse, mai condividendo appieno quella del giudice comunitario. In una prima fase la Consulta, ritenendo che la norma comunitaria trovasse fondamento nella legge (ordinaria) che ha reso efficace l’adesione al trattato, ha affermato che le leggi interne contrarie al diritto comunitario possano essere eliminate soltanto da essa e alla condizione necessaria e imprescindibile che siano contrarie ai parametri della nostra Costituzione. In un secondo momento la Consulta ha ammesso che il diritto comunitario poggia sul referente dell’articolo 11 della Costituzione e, pertanto, le norme comunitarie che trovano diretta applicazione nel nostro ordinamento vanno considerate di rango superiore alle nostre leggi: quelle emanate prima della norma comunitaria alla quale sono contrarie, vengono disapplicate dal giudice, quelle successive possono essere eliminate solo da essa.In una terza fase la Corte ha ammesso che anche le leggi emanate successivamente a norma comunitaria con la quale contrastano possono essere disapplicate dal giudice, dopo che abbia provato senza successo a darne un’interpretazione quanto più possibile conforme alla norma comunitaria. Infine la Consulta si pronunciò sull’ammissibilità della proposizione in via principale della questione di costituzionalità denunciata dallo Stato nei confronti di una legge regionale contraria a norma comunitaria: ciò sembrò sancire da parte del giudice delle leggi per la prima volta il principio dell’integrazione tra diritto comunitario e diritto interno, come da sempre sostiene la Corte di giustizia europea. Anche dopo il cambiamento del titolo V della Costituzione la Corte ha ritenuto ammissibile la denuncia in via principale da parte dello Stato nei confronti di legge regionale contraria a norma comunitaria, precisando che referente debba considerarsi ormai l’articolo 117 primo comma della Costituzione. Questione estremamente controversa è quella relativa alla sorte di un atto amministrativo emanato in base a norma interna contraria al diritto comunitario: è evidente che la soluzione del problema è legata alla qualificazione del rapporto tra diritto comunitario e diritto interno, se si ritiene che esso dia vita ad un’integrazione dei due ordinamenti con primazia di quello comunitario, il giudice, disapplicando la norma interna e applicando quella comunitaria, dichiarerà l’atto illegittimo annullandolo. Il Consiglio di Stato sembra aver assunto questa posizione distinguendo il caso in cui la norma contraria al diritto comunitario si limiti a disciplinare l’uso del potere, da quello in cui sia fonte dello stesso: nel primo l’atto è annullabile nel secondo è affetto da nullità virtuale ex articolo 1418 del codice civile. Secondo un’altra tesi il giudice amministrativo sarebbe dotato, come quello ordinario, del potere di disapplicazione sull’atto contrario al diritto comunitario anche oltre il termine di decadenza per la proposizione della sua impugnazione e a prescindere dal tipo di vizio dal quale fosse affetto e ciò per non rendere l’atto amministrativo munito di una maggior forza di resistenza al diritto comunitario rispetto all’atto normativo; tale posizione non ha trovato riscontro presso la giurisprudenza comunitaria che ha affermato la competenza di ogni Stato membro a disciplinare i mezzi di tutela dei termini processuali con l’unico limite di una certa equivalenza nella disciplina di essi tra i vari Stati membro.

Avv. Luca Sansone