Il denaro è l’unità di misura del valore di ogni bene e la sua nascita è dovuta alla necessità per ogni società e ordinamento minimamente evoluti di superare nei traffici economici il baratto. A differenza, però, di ogni altra unità di misura, esso è soggetto a cambiamenti in relazione al proprio valore inteso come potere d’acquisto, in quanto è legato alla ricchezza del paese cui pertiene l’ordinamento giuridico che lo disciplina. Pertanto ogni ordinamento giuridico è chiamato a scegliere rispetto alle obbligazioni che lo hanno ad oggetto, tra il criterio del nominalismo e quello del valoroso: se si opta per il primo l’espressione numerica contenuta nel titolo dell’obbligazione rende la stessa liquida a prescindere dal cambiamento del suo potere d’acquisto; se invece si sceglie la via del valorismo, l’espressione numerica corrisponde ad un valore al momento della nascita del rapporto che va poi convertito, erga liquidato, con diversi parametri, al momento dell’adempimento affinché vi sia corrispondenza del valore rispetto al momento della nascita dell’obbligazione. Il nostro ordinamento, come tutti quelli moderni, ha scelto come regola base per le obbligazioni pecuniarie il criterio del nominalismo, in omaggio al principio della certezza nei traffici giuridici, ponendo l’alea della svalutazione monetaria in capo al creditore, prevedendo espressamente dei casi tipici in cui l’obbligazione pecuniaria è governata dal principio del valorismo come, ad esempio, per i crediti da prestazione lavorativa e per quelli previdenziali.Alla luce di queste brevi considerazioni, si può affrontare la tematica relativa al tipo di danno generato dall’inadempimento dell’obbligazione pecuniaria in relazione al referente normativo che regola tale aspetto; l’articolo 1224 primo comma del codice civile prevede come regola base un risarcimento forfettizzato corrispondente agli interessi legali. Si tratta di una disciplina che deroga rispetto all’onere della prova in quanto prescinde assolutamente dalla prova del danno senza alcuna possibilità di prova in contrario. Il secondo comma dell’articolo 1224 consente al creditore che dimostri di aver subito un maggior danno un ulteriore risarcimento. È evidente che la regola base contenuta nel primo comma, visualizzi il danno da ritardo nell’adempimento come danno emergente da perdita del potere d’acquisto del denaro. Il secondo comma copre cumulativamente gli ulteriori danni che possono conseguire dall’inadempimento dell’obbligazione pecuniaria e che possono consistere in un mancato investimento che avrebbe remunerato maggiormente rispetto agli interessi legali il capitale (lucro cessante) ovvero nel costo del denaro avuto in prestito per il mancato incasso di quello dovuto (danno emergente). La giurisprudenza negli anni ha interpretato in maniera molto diversa il secondo comma dell’articolo 1224 in relazione all’onere della prova. In un primo momento corrispondente al periodo che va dall’entrata in vigore del codice civile al 1970, per ottenere il maggior danno si richiedeva una prova liquida di esso sia nell’an che nel quantum non essendo sufficiente per l’attore allegare la svalutazione. Si è passati poi ad una fase molto breve, seguita alla redazione novellata dell’articolo 429 del codice di procedura civile in materia di crediti da lavoro dipendente, nella quale l’inadempimento del debito pecuniario rendeva quest’ultimo debito di valore con la conseguenza di una sua rivalutazione cumulata con gli interessi legali. Alla fine degli anni 70 si è sviluppata una giurisprudenza che ha tenuto banco fino al 2008 che ha diviso i creditori di denaro in quattro categorie: imprenditori, risparmiatori abituali, percettori di una somma capitale una tantum, consumatori; l’attore era onerato soltanto di dimostrare di appartenere ad una di queste categorie, la quantizzazione del risarcimento scattava automaticamente con dei parametri giurisprudenziali che tenevano conto della propensione alla utilizzazione del denaro o del danno emergente per ciascuna delle categorie: per l’imprenditore il danno era rappresentato dalla differenza tra il tasso degli interessi legali e il tasso di interesse pagato per procurarsi denaro necessario ai suoi investimenti, per il risparmiatore abituale dalla differenza tra il tasso d’interesse legale e il tasso di remunerazione degli investimenti più diffusi, per il percettore di somma capitale una tantum dalla differenza tra il tasso d’interesse legale e la maggior remunerazione ottenibile dall’investimento della somma dovuta; per il consumatore abituale, che spende tutto il denaro in beni di consumo, essendo gli interessi legali deputati a risarcire la perdita del potere d’acquisto della moneta, non era riconosciuto del plano il maggior danno essendo necessaria a suo onere una prova liquida per ottenerlo. Tale meccanismo è stato oggetto di critiche da alcuni esponenti della dottrina in quanto approssimativo e non rispettoso della assoluta soggettività della propensione all’utilizzo del denaro, anche all’interno di categorie omogenee. Per questa ragione unitamente al mutato contesto economico finanziario del paese che è passato da un’inflazione galoppante con un tasso di svalutazione monetaria sempre superiore al tasso degli interessi legali ad una situazione completamente diversa nella quale questi ultimi sono pressoché costantemente superiori al tasso di inflazione, la Suprema Corte nel 2008 ha sconfessato il sistema descritto adottandone un altro completamente opposto nel senso di equiparare tutti i creditori abbandonando, quindi, il criterio delle categorie. Il maggior danno viene risarcito quale danno emergente consistente nella differenza tra il rendimento dei titoli di Stato a scadenza annuale e il tasso degli interessi legali ovvero quello di inflazione se superiore; questa base è modificabile, con onere della prova a carico delle rispettive parti, in peius o in melius. In questo modo si scoraggia il debitore ad utilizzare il denaro con il quale dovrebbe adempiere al suo debito in investimenti che gli renderebbero un aggio consistente nella differenza tra la remunerazione ottenuta e il minore tasso degli interessi legali. Né tanto meno con questo sistema si sconvolge il principio dell’onere della prova così come disciplinato dall’articolo 2697 del codice civile: esso si poggia concettualmente sull’alternativa tra normalità ed eccezione; e pertanto preferibile in tale normalità l’utilizzo del sistema della presunzione iuris tantum che risulta vincente su quello della vicinanza della prova.
Avv. Luca Sansone